Consumare più pesce, una raccomandazione che si sente fare spesso quando si parla di sani modelli alimentari ma che sembra piuttosto disattesa nel nostro paese, benché patria della dieta mediterranea. A limitare la presenza in tavola dei cibi marini e d’acqua dolce ci possono essere vari motivi, da gusti e tradizioni culinarie differenti a un certo costo per alcuni di essi (ma il pesce azzurro, il più consigliato, è molto economico), e anche la preoccupazione per eventuali rischi per la salute derivanti da sostanze contaminanti, in primis il mercurio, in seguito ad allarmi veri o presunti rilanciati periodicamente dai media. Un rischio concreto è che, tra le sollecitazioni a consumare di più questo alimento e l’evocazione di pericoli per la salute, il consumatore non sappia più che pesci pigliare. Per cercare di fare un po’ di chiarezza sull’argomento, due epidemiologi della Harvard School of Public Health di Boston hanno esaminato attraverso Medline un’amplissima serie di studi clinici e sperimentali, considerando i principali aspetti positivi e negativi, per compiere una valutazione di tipo rischi/benefici. E il bilancio finale indica che per un consumo di una-due porzioni alla settimana e con alcune cautele i primi sono senz’altro inferiori ai secondi.
Una porzione settimanale di pesce grasso
Il capitolo dei benefici fa capo principalmente a due grassi polinsaturi della serie n-3 noti anche come omega-3, l’acido eicosapentaenoico (EPA) e il docosapentaenoico (DHA) che sono presenti in quantità elevate soprattutto nel salmone e nel pesce azzurro (in particolare acciughe, aringhe, maccarello) e che si legano a una riduzione del rischio coronarico, come è emerso dalle osservazioni su popolazioni a forte consumo ittico come i nativi della Groenlandia e i Giapponesi e in numerosi altri studi. Per assunzioni moderate di omega-3, fino a 250 mg al giorno, corrispondenti a una porzione settimanale di salmone, acciughe o altro pesce grasso (in media 170 grammi) o a più porzioni di pesce magro, risulta una diminuzione del 36% della mortalità per coronaropatia; ciò significa una riduzione della mortalità totale intorno al 14%, simile a quella del 17% rilevata in trial clinici. Questo sembra non valere però per le preparazioni commerciali di pesce a basso tenore di omega-3 e fritto, magari con grassi idrogenati e riutilizzati. L’assunzione di DHA durante la gravidanza e nelle prime fasi di vita è anche importante per lo sviluppo cerebrale infantile, come dimostrano ricerche sulle performance cognitive e comportamentali dei bambini.
Donne in età fertile, cautela con il mercurio
Nel capitolo dei rischi primeggiano quelli da mercurio, metallo liberato nell’ambiente anche per svariate attività umane che giunto nelle acque dolci e salate viene trasformato dai batteri nella forma organica metilmercurio. Questa è rapidamente assorbita e bioaccumulata lungo la catena alimentare, per cui si trova a concentrazioni più elevate nei tessuti dei grandi predatori come squali e pesci spada, diventando così potenzialmente più tossica di quella inorganica. L’esposizione ad alte dosi di mercurio, per esempio occupazionale, ha effetti documentati mentre quelli di dosi inferiori come per il consumo di pesce sono meno definiti; famoso il caso giapponese di Minamata, negli anni Cinquanta, con bambini dalle marcate anomalie neurologiche nati da madri che avevano ingerito pesce altamente inquinato da metilmercurio (che attraversa la placenta) o, più di recente, quello dei cereali contaminati in Iraq. A parte casi particolari, l’assunzione di metilmercurio con i prodotti ittici è però in genere molto inferiore, come ha dimostrato per esempio una ricerca su donne americane in età fertile che consumavano almeno tre porzioni di pesce al mese e avevano un contenuto di mercurio nei capelli insufficiente per determinare deficit di sviluppo neurologico. Ma i dati sui punteggi dei test neurologici dei figli in relazione all’esposizione gestazionale al mercurio delle madri sono contrastanti, l’associazione inversa dimostrata in alcuni studi è apparsa inconsistente in altri: non potendo escludere effetti subclinici sullo sviluppo cerebrale da basse esposizioni, a livello prudenziale l’Environmental Protection Agency statunitense ha raccomandato specificamente per le donne in età fertile o che allattano e per i bambini piccoli di evitare il consumo di squali, pesci spada e altri grandi predatori, e di limitare le porzioni a un paio alla settimana per pesci con meno mercurio, a una per il tonno bianco. Questo non vale per la popolazione generale, non essendoci evidenze chiare negli adulti di deficit neurologici subclinici inversamente associati a bassi livelli di metilmercurio; all’opposto varie osservazioni depongono per effetti benefici del consumo ittico in relazione a condizioni neurologiche e psichiatriche quali ictus ischemico, declino cognitivo e demenza, depressione. Dati contrastanti ed evidenze inconcludenti anche per eventuali rischi cardiovascolari da metilmercurio.
Altri pericoli ipotizzati sono quelli da diossina e policlorobifenile (PCB), composti cancerogeni presenti come contaminanti nell’ambiente e in minime quantità negli alimenti, non più nel pesce che negli altri: ma si è per esempio calcolato, rispetto al consumo di salmone, che i benefici in termini di minore mortalità cardiovascolare superano di centinaia di volte i potenziali rischi tumorali; lo stesso vale per altri effetti possibili a livello immunitario e neurologico. In conclusione, per i prodotti ittici la bilancia pende dalla parte dei benefici rispetto ai rischi; tra questi ultimi vanno segnalati semmai quelli derivanti dall’eliminazione del pesce dalla dieta, come mancato effetto protettivo cardiovascolare e conseguenze negative per lo sviluppo cerebrale infantile.
Fonte
Mozaffarian D. Fish Intake, Contaminants, and Human Health. JAMA. 2006;296:1885-1899.